Breve corso introduttivo per cartomanti in autogestione (e altre cose poco divertenti)

Non credo di averlo mai raccontato qui, ma ai tempi dell’Università, per sbarcare il lunario e dopo essermi fatta debitamente istruire da una vecchia amica fricchettona/new age, lavorai per circa tre mesi in uno di quei call center in cui di fanno i Tarocchi. La mia capa proveniva da un paese esotico, le cui credenze magiche lei aveva assorbito da bambina, e che una volta giunte a contatto col cattolicesimo nostrano si erano fuse alla perfezione con il culto di Padre Pio e della Madonna. Nonché, devo ammettere,  con uno spirito imprenditoriale davvero fuori del comune, dando il via ad una reazione di sintesi il cui risultato era un sincretismo spiritual-cattolico -capitalista selvaggio  particolarissimo; aveva messo su questo grosso centro di cartomanzia in cui, giovani (non carini) precari e disoccupati (e qualche megera tabagista e arrivista) stavano incatenati alle postazioni senza fisso quotidiano o mensile, rigorosamente in nero e pagati pochi centesimi per ogni minuto di conversazione. Ci capitai per disperazione, con l’intenzione di non gravare più sul mio compagno di allora e sulla famiglia, con l’umore più nero di cui riuscii ad ammantarmi, la vergogna che mi faceva un nodo dentro dentro lo stomaco, ed ebbero inizio tre mesi di noia, alienazione, sensi di colpa e rigetto fisico. La capa, che mi aveva inquadrata subito come una buona a nulla e aveva capito subito che non sarei mai stata capace di passare al livello successivo a quello dei consulti standard da otto minuti pagati una miseria, mi sopportava a malapena e mi teneva d’occhio tutto il giorno. Il famigerato livello successivo consisteva nel diventare talmente stronzi da individuare i casi più disperati e manipolabili, e trasferirli con la scusa di un consulto approfondito su una linea dal costo esorbitante per fargli compiere rituali assurdi col solo scopo di fargli mettere giù il telefono ogni venti secondi e costringerlo a richiamare, per permettere al telefonista di turno di guadagnare sullo scatto alla risposta dal costo esorbitante. Ho visto gente tirar su anche quattrocento euro in un turno, con questo giochetto, novelli Maestri do Nascimiento dell’Alto Tevere. Io prendevo le mie telefonate nell’angoletto, facevo durare il mio consulto otto minuti giusti, quelli regolamentari, non insistevo mai per essere richiamata e spingevo le clienti a farsi una vita, dopodiché mi beccavo i cazziatoni della capa. Morale della favola, dopo tre mesi mi diedi malata grave e scappai senza neanche prendermi i soldi che mi spettavano, tanto era lo squallore che respiravo là dentro e l’insofferenza che mi stava cagionando. Ovviamente, nessuno mi corse dietro o mi rimpianse.

Ma non è questo l’argomento di questo post. Raccontare questa cosa mi è servito da introduzione per dire che, quasi dieci anni dopo, e più o meno per le stesse identiche ragioni – leggi: pezze al culo – mi ritrovo adesso a fare la stessa cosa, ma in una modalità diversa e totalmente autogestita. Trovandomi economicamente al limite da diversi mesi, con il lavoro “ufficiale” (per modo di dire) fermo,  mi si è riaperto un cassetto della memoria e mi sono ricordata di quell’infausta parentesi di cartomante improvvisata al soldo di una Vanna Marchi dei Caraibi qualunque e, memore di quanto ci viene ripetuto ogni giorno dalla politica e dai genitory choosy di figli choosy che bisogna  – noi – essere non choosy, ma creativi, imprenditori di sé stessi, rimboccarsi le maniche, e hungry e foolish, ho detto: why not? E così, aperto un blogghetto minimal, gettato al vento una manciata di annunci, creato un account su un forum visitatissimo da donne e ragazze d’Italia con una nutrita sezione di astrologia, cartomanzia e veggenza sui cui contenuti i moderatori chiudono ben volentieri un occhio in virtù degli introiti pubblicitari, mi sono ri-armata di un mazzetto di marsigliesi, di una ripassata ulteriore su schemi di lettura ed interpretazione e storia dei Tarocchi e, di un po’ di faccia come il culo per tenere a bada i sensi di colpa ed il sano proposito di essere una cartomante militante (prima o poi fonderò “Cartomanzia critica”, per sfigate come me che per lenire il senso di colpa infarciscono i consulti di messaggi subliminali inneggianti alla rivolta contro il patriarcato), ho cominciato  a fare la cartomante telematica. Niente telefono, ché richiede solitudine, capacità d’improvvisazione, velocità, riflessi, ed il tono di voce perennemente ispirato, da veggente, come se fossi posseduta da Jodorowsky in persona. Meglio le e-mail: rapide, non richiedono costi d’attivazione e di gestione, e mi consentono se non altro di esercitare la scrittura e dar via a  prezzo modico dei papiri che le donne rimangono sconvolte quando li vedono. Tengo a specificare che i costi sono bassi, che su un singolo consulto posso spendere a volte anche mezza giornata e che la media di guadagno mensile è inferiore a quella del part-time più ordinario che vi possa venire in mente. Quindi fate come me solo se: non vi scoccia scrivere per ore e ore e tornare mille volte sullo stesso argomento, avete un minimo di conoscenza dello strumento (i Tarocchi), delle logiche di base del maschio umano-italico (mangiare-lavorare -innamorare-scopare-stufarsi-tradire-spegnere il cellulare-trascinarematrimoniomortopernonpagarelacausadiseparazione), e se siete così ridotti alla fame da farvi sembrare appetibile fare un lavoro che sta a metà tra l’assistenza sociale, la psicologia, il centro antiviolenza ed Allison Dubois. Dovete avere anche una discreta capacità di capire quando usare l’empatia e quando dire – o non dire – apertamente “Ma a me che cazzo me frega se l’aereo che stai per prendere per andare a fare Audrey Hepburn ai Castelli Romani co’ Gregory Peck rischia di far tardi per la neve e di farti così sgamare da tuo marito? Ma che ne so io? Chiamare l’Alitalia no?” Ma tanto, dato che crisi ed austerity m’hanno dato tanto tempo a disposizione davanti al pc, e dato che twitter m’ha già triturato le ovaie, su fb resisto in virtù di poche anime belle, e che stavo precipitando in uno stato psicologico che presto avrebbe richiesto cure specialistiche, ho deciso che l’alienazione era abbastanza (e il conto in rosso pure) e che potevo forse dedicarmi ad alleviare un po’ quella degli altri per sentire meno la mia, e forse evitare anche che le Poste mi telefonassero in contnuazione per chiedermi che cazzo tenevo aperto a fare un conto se poi dovevo lasciarlo squattare ai buchi neri dell’universo. Mi importava anche l’impostazione da dare al lavoro, perché una lettura dei Tarocchi deve essere un prodotto vendibile a tutti gli effetti, oltre che fatto secondo i canoni di quelli che ci credono seriamente in queste cose, e proposto ad un range di clienti quanto mai vasto e differenziato, e pure molto scafato, che va dal professionista rampante alla signora che ha scarsa dimestichezza con l’internét e non sa cosa sia PayPal, passando per la ragazzina semianalfabeta che in risposta al tuo tono gentile e comprensivo te parla come se stesse mannanno affankulo su’madre, su’sorella e tre kuarti di palazzina. Inoltre, quasi tutte le mie clienti sono molto più scafate di me sul tema, scrivono a una decina di cartomanti e veggenti al giorno, sanno che è loro diritto porre la prima domanda gratis per vedere se ci prendi, sanno come chiedere in modo che le carte rispondano, hanno un black list delle cartomanti farlocche, rilasciano feedback e riscontri positivi e negativi in pubblico, con una spietatezza degna del tribunale di Forum o del pubblico parlante di Maria De Filippi. Finora me la sono cavata egregiamente, non so come sia potuto accadere, ma limitandomi semplicemente ad interpretare i pupazzetti disegnati sulle carte ho una media di previsioni azzeccate che si aggira su percentuali vertiginose rispetto alle mie colleghe del forum. Per non parlare di come ci prendo sui traumi del passato, attaccamento genitoriale, complessi di Edipo e di Elettra, dipendenza affettiva e mancata individuazione del sé. Sul futuro ci sto lavorando, ma anche lì basta un po’ di lungimiranza e l’armamentario di frasi standard sul libero arbitrio, il destino mutevole, le influenze esterne, i tempi che possono dilatarsi, le carte che s’aribellano se je rompi i cojoni co’la stessa domanda troppe volte di seguito. Però alcune volte ci ho preso in maniera impressionante anche sui tempi, e la cosa mi fa sentire molto orgogliona e gratificata, nella mia cialtronaggine. D’altronde, se quei pupazzetti stanno lì sulle carte dal MedioEvo, vorrà dire che qualche volta c’avranno pure ragione. Oh. Oppure sarà che ho ascendenze stregonesche regionali (do you remember Carlo Levi?), sarà che alle altre riesco a dare i consigli che servirebbero a me ma che io non metto in pratica manco morta e continuo indi per cui a fare unavitademmerda. Boh.

Ma non sono neanche questi gli aspetti di cui volevo parlare. Sono cose arcinote. Riguardano il caso, il puro culo ed un minimo di esperienza nelle sòle sentimentali. Sono sicura che molte/i si sono dovuti/e cimentare in quest’attività che si esplicita su quella sottile linea di confine che sta tra l’illegaltà, la vendita di illusioni e il ruolo di psicologo, life coach e spalla su cui piangere. Il vero motivo di questo post – bando alle cazzate, ora – sono tutte le donne con cui ho a che fare ogni giorno, e le cui parole mi porto dietro ogni sera con un senso di colpa schiacciante, come se fosse colpa mia ogni singola ora sprecata di queste vite. Donne che meglio di ogni statistica, di ogni pamphlet scritto dalla filosofa femminista ospite di Lerner, meglio di ogni assemblea sui massimi sistemi, rappresentano una maggioranza che non fa testo, che non viene mai considerata – in quest’epoca in cui il tema trendy è la fuga dei cervelli, la pluri-laureata e pluri-masterizzata, la precaria cognitiva offesa nella sua dignità da quella che invece ha scelto la via più facile e meno “dignitosa” (Snoq docet). Io parlo con le donne di quello che una volta veniva chiamato proletariato e sottoproletariato, quelle per cui fantasticare sull’uomo che incontrano per caso e chiedere poi alla cartomante se lui riprenderà quell’autobus solo per vederle costituisce un’evasione sufficiente dalla vita che fanno, senza chiedere altro, senza chiedersi altro. Sono donne che fanno lavori massacranti o non lavorano affatto (ed infatti non si contano i consulti chilometrici aggràtise che faccio solo per farle sentire un po’ coccolate) e poi accudiscono famiglie formate da eserciti di uomini che iniziano dal nonno e finiscono col nipote; donne che non possono lasciare mariti violenti ed uomini che non le amano perché non hanno un lavoro e non hanno un posto dove andare, e non possono portarsi dietro i figli e temono la reazione delle famiglie; donne invischiate in relazioni umilianti e costrette a subire abusi sessuali dai compagni che le coinvolgono in giochi a cui loro non vorrebbero acconsentire, ma se non acconsentono “lui poi si trova un’altra”, donne che a stento riescono a scrivere un’e-mail in un italiano incomprensibile, duro, senza un ciao o un grazie,  e poi all’improvviso,qualche volta, si sciolgono e ti scrivono che si sono messe a piangere per come sei riuscita a descriverle e che ti sentono come una sorella, donne che ti ringraziano perché le hai messe di fronte alla loro dipendenza e ti dicono che adesso basta, che loro cercheranno di tenere duro e di uscirne, e di dire no quando vorranno che sia no. E quindi volevo dire semplicemente che, al di fuori delle cerchie ristrette delle militanti femministe e solidali tra loro, dei finti convegni sulla dignità organizzati dalle amiche del bridge, al di là, insomma, di tutto quel mondo autoreferenziale – precario sì, ma anche lontano da certa miseria – che discute sulla Woolf e la Butler e la Preciado e discute di post-porno come se fosse la testa d’ariete per abbattere il capitalismo patriarcale, ci sono queste donne. Appena più in là del nostro naso pronto ad arricciarsi se si usa il termine dignità a proposito o a sproposito, appena oltre la siepe dei distinguo che corrono sul filo dell’autocompiacimento cerebrale, lo scenario è questo: donne ancora subalterne, donne schiave di rapporti costruiti intorno a matrimoni-gabbie, donne legati a uomini e famiglie che non vogliono dalla dipendenza economica, donne che sanno parlare di se stesse e dei propri sentimenti solo con il linuaggio dei talk show, che hanno perso a tal punto il contatto con se stesse da chiedermi riti magici per allontanare da sé un marito perché loro hanno paura di non farcela – e a niente vale dir loro che il coraggio lo trovano da sole, e che saranno capaci di camminare da sole se vorranno chiudersi quella porta alle spalle.  Sono donne che nonostante tutto questo hanno ancora la voglia di parlare, chiedere, sentirsi raccontare da qualcun altro perché è il loro unico modo di potersi vedere dall’esterno, di farsi spiegare perché stanno così male, e perché secondo loro la felicità deve passare necessariamente attraverso l’arrivo di un uomo che le salverà ma che per farlo dovrà necessariamente abbandonarne un’altra, come se l’altra fosse una nemica a cui strappare un trofeo di guerra. Donne alle quali io non posso permettermi di andare a parlare di Simone de Beauvoir, di deregolamentazione selvaggia del lavoro, di welfare e stato sociale, perchè nella milgiore delle ipotesi mi riderebbero in faccia,  e nella peggiore le farei sentire prese a calci. Sarei da prendere a calci nei denti IO se mi ponessi nei loro confronti con la spocchia della sacerdotessa dei tarocchi di ‘sta ceppa che va a dir loro cosa fare. Io non mi sono mai sentita milgiore di loro, e anzi devo ringraziarle: perché grazie a loro e alla gratitudine che provano nei miei confronti ho potuto fare la spesa un paio di volte in più in un mese, perché al di là della loro diffidenza iniziale verso il mio modo di esprimermi che non riesco a camuffare abbastanza riescono alla fine sempre a capirmi e capire perché dico loro certe cose, perché non le tengo agganciate a me nella speranza di farmi regalare un altro po’ di spicci per dir loro che sì, lui le chiamerà e le porterà via per un week end e poi lascerà la moglie e i figli e farà di loro delle regine, non dico loro che avranno un posto a tempo indeterminato se tutto quello che mi chiedono è “riuscirò a fare più ore di pulizie questa settimana, che mi servirebbero proprio?”. Nelle ultime settimane ho pensato spesso al gap che esiste tra il mondo del femminismo accademico, letterario, colto, e questo mondo fatto di cose piccolissime, senza sfumature, dai contrasti sempre violenti, dagli odii e amori accentuati e vissuti alla stregua di una telenovela, in cui una telefonata che non arriva è una tragedia peggiore di quella delle elezioni appena trascorse. E non ho mai pensato che queste donne potessero dirmi o insegnarmi di meno rispetto a quelle con cui sono abituata a parlare, quelle che leggo, quelle che sono mie amiche da una vita. Non ho mai pensato che queste donne debbano essere salvate: queste donne devono essere istruite e coltivate, si deve regalare loro una cassetta degli attrezzi con cui fabbricarsi da capo un mondo, e si devono riappropriare di tutto il potenziale umano che viene loro negato. Istruite, e coltivate. Nel senso che bisognerebbe rifondare linguaggi e modelli, e rapporti di produzione e di potere, e abbattere un sistema intero affinché a tutte quante sia data la possibilità di “sentirsi” nel mondo, di parlare di se stesse attraverso se stesse e non attraverso i codici che la dipendenza ecomonica, sociale ed affettiva ha loro imposto, riducendo all’osso il loro linguaggio e il loro modo di percepirsi. Urge diffondere anticorpi contro l’annullamento dei senso di sé, il che equivale alla necessità di distruggere i rapporti di potere che a queste donne appaiono naturali e che riescono a riconoscere solo qualche volta, con grande fatica ed immenso sforzo. Ho più facilità a riconoscere una compagna ed una sorella in una qualunque di queste donne semianalfabete e disperate che in una qualunque signora nata bene con alle spalle una biblioteca di testi classici e il naso pronto ad arricciarsi davanti ad una citazione non consona. Le mie donne, a queste, je spicciano casa, spesso in senso letterale, ma hanno un’umanità ed una verità sconvolgente nella lro violenza, nella loro mancanza assoluta di filtri e di mediazioni costruite dal retaggio borghese ed autoreferenziale di molte femmniste virtuali.

Tutto questo pippone per dire solo che a volte mi sento una merda impotente di fronte all’inutilità e al velleitarismo di certe analisi che vanno bene giusto per uno status di facebook, una puntata dell’Infedele o per innescare una polemica accademica tra professoresse e giornaliste col culo al caldo.  E questo è quanto (ovvero: una cosa scritta coi piedi ma che dovevo assolutamente dire prima che facesse giorno.)

20 commenti
    • I primi sono sempre gratuiti. Se mi richiedono esplicitamente gli approfondimenti, concordo direttamente con loro o accetto la loro prima offerta, in base alle loro possibilità, e spesso mi è anche capitato di dire a qualcuna che non aveva bisogno di farsi dire nulla perché sapeva già da sola le cose che aveva bisogno di sapere (una cosa inconcepibile per il 99% di chi fa questo “lavoro”!). Non ho mai imposto una cifra alle persone di cui ho raccontato qui, e più di una volta ho regalato consulti chilometrici che mi hanno richiesto diverse ore di scrittura a donne che non potevano pagare, solo per dar loro qualcosa da leggere e farle sentire meno sole, e molte le continuo a seguire quasi quotidianamente senza mai prendere un centesimo, perchè mi riscrivono per sfogarsi e hanno bisogno di avere qualcuno che le ascolti. C’è anche da dire che io ho incentrato il post sulla categoria di donne che mi colpisce di più, ma una fetta di quelle che mi contattano è assolutamente autosufficiente ed indipendente dal punto di vista economico (ti parlo di professioniste, imprenditrici, donne che lavorano in grosse aziende) e può permettersi di “usare” la cartomante con la stessa facilità con cui fa shopping su internet, per noia, per chiacchierare, e sono più che contente di pagare un decimo o anche meno di quello che spenderebbero per un paio di scarpe o una borsa. Probabilmente è una forma di povertà anche questa, ma ci tenevo a dire che non sto in nessun modo lucrando sul disagio di nessuno. Ho dei paletti etici grossi così, e non perché me li sia imposti appositamente, ma perché semplicemente sono miei di default, non appartengo alla categoria degli avvoltoi e della gente che si approfitta delle fragilità altrui. Altrimenti con questa cosa dei tarocchi ci avrei tirato su uno stipendio, non gli spicci per fare la spesa settimanale.

      • Grazie mille per la tua risposta, ci tenevo a capire un po’ meglio in che modo ti rapporti con le “clienti”.

        • Di niente, capisco che mi muovo su un terreno “particolare”,a dir poco, e grazie per avermi dato modo di aggiungere questa spiegazione :)

  1. Questo post è meraviglioso, un po’ lungo :-) ma notevole.
    Ammiro questo tuo smettere di essere choosy – finalmente ascoltiamo un po’ i dettami della rimpianta Fornero – ma foolish e hungry (anche perché senza stipendio, e lo dico per esperienza, la fame viene da sè).
    Ironia a parte, quel che apprezzo in particolare è la tua analisi sui limiti del femminismo accademico – o”alto” – e la riflessione sullo iato esistente tra tante belle teorie e la “massa”. Pur essendo affamata di conoscenza femminista sono stanca di questa distanza, che trovo impietosa e purtroppo spesso inconsapevole, creata e mantenuta in vita da parte delle “illuminate”. Sono molto stanca di tante pippe mentali e dibattiti inutili. Là fuori c’è un mondo di donne come quelle che descrivi tu. Senza parlare di quelle che nemmeno si possono avvicinare al pc, come tutte le donne che vivono nei paesi del terzo mondo, pardon, sud del mondo che è politically correct.
    Mi piacerebbe che ci raccontassi episodi singoli delle donne che incontri virtualmente (con le dovute accortezze per proteggere la loro privacy, ovviamente) e anche quali saranno i frutti di questa “contaminazione” che stai mettendo in atto. Go sister go! Un abbraccio. Olga

  2. Ah, ma io choosy non lo sono mai stata, ho fatto decine di lavori assurdi che non mi hanno mai portata da nessuna parte e non sono mai stati sufficienti a darmi nemmeno un briciolo di stabilità :)
    E il punto l’hai centrato, volevo proprio sottolineare, al di là delle storie singole, che viviamo spesso un femminismo retorico, fatto di slogan bellissimi ed analisi avanzatissime, e sono contenta che in rete, negli ambienti militanti, nei centri sociali ci sia dibattito, ma io nell’ultimo mese ho fatto una vera e propria discesa nel ventre dell’emarginazione, dell’esclusione economica e sociale, e all’improvviso tutto mi è sembrato insopportabilmente ciarliero e autoreferenziale di fronte ala realtà che queste donne mi hanno sbattuto in faccia. Il senso di appartenenza lo sento molto più forte nei confronti di una donna delle pulizie o di una ragazza che aspetta un contratto di poche ore che non arriva, piuttosto che nei confronti delle teoriche del post, pre, anti, pro. Il femminismo deve occuparsi delle donne, tutte, ma mi sembra che ultimamente ci sia in atto una deriva pipparola funzionale solo all’indebolimento dei legami con l’effettivo stato di cose. Parlo di un ambito limitato del femminismo, alto ed accademico, non certo delle compagne che quotidianamente si occupano di violenza, lavoro, diritti – perché sarebbe ingiusto ed irrispettoso non riconoscerlo. Ma credo che serva un bagno di realtà per molte persone, per ricominciare a “stare sul pezzo”, come si suol dire.
    Avevo anche pensato di parlare di qualcuna di loro in modo specifico, ognuna di loro è un mondo e si meriterebbe una chiave narrativa diversa e molto più spazio. Non escludo di farlo :)

  3. gabriele ha detto:

    Ciao, complimenti per quanto hai scritto, condivido l’impulso di fondo, la scelta prospettica e, per strani versi, anche qualche frammento dell’esperienza.

    Per fare l’avvocato del diavolo, o l’accademico del diavolo, o l’accademico del cavolo, vorrei però domandarti se ritieni che i tuoi contatti con il mondo teorico, di quella critica sofisticata che sorge (più spesso) nel privilegio, non abbiano avuto proprio nessuna parte nel consentirti un’analisi come quella che proponi, sia nei confronti delle tue interlocutrici, sia verso lo stesso femminismo “alto”… e “nebuloso” (o nebulizzato).

    E non solo l’analisi: parzialmente, tali contatti potrebbero aver avuto un ruolo perfino nell’aiuto che tu decidi di offrire. In parte perché, per attuarsi, quell’appoggio sembra dipendere da una notevole capacità analitica, in parte perché la volontà stessa di agire in un determinato modo si nutre della coscienza che ci si è formati, e la coscienza si forma anche “leggendo” il mondo in una certa chiave, ahinoi non necessariamente “vivendolo” (quante rivoluzioni avremmo già avuto).

    Non conoscendoti non saprei dire quali siano stati i tuoi contatti con il femminismo accademico, ma da quanto scrivi è evidente che siano esistiti, se non addirittura personali e di partecipazione diretta, sicuramente in termini di letture, aggiornamento e partecipazione mediata.

    Ecco, forse il dibattito futile serve perché è un terreno di cultura per il sorgere delle idee, che poi sono gli strumenti delle analisi e delle volontà. Dal chiacchericcio irritante prima o poi possono uscire spunti e formalizzazioni che senza quella sofisticazione è difficile elaborare. Magari passando per la testa o la voce o le braccia di altre persone, che non chiaccheravano, però passavano di lì.

    Perfino il dibattito interno e autoreferenziale ha un suo senso, cioè almeno il dimostrare di mettersi continuamente in discussione: il che, banalmente, primordialmente, significa che non si è blocco monolitico del sacro verbo, che si può sbagliare e lo si ammette (almeno in teoria :-D), che si accetta di sottoporsi allo scrutinio altrui.
    Non tutti i discorsi hanno questa apertura, di per sé meritoria, questo rivolgimento interno, anche se il costo talora è un – reale o apparente – onanismo barocco del discorso.

    Parlo per me: io vivo fortissimamente la percezione per cui i miei pensieri e le mie capacità siano figli ibridi di molti altri pensieri e capacità, a loro volta sorti in un contesto partorito da altri discorsi. Non saprei dire che cosa sia stato futile vaniloquio e che cosa intuizione pregnante e decisiva: o forse saprei dirlo, ma non escluderei che esista simbiosi tra l’uno e l’altra.
    Se poi mi trovo a immergermi in una realtà affine a quello che tu descrivi così bene, mi accorgo che se non affogo è perché ho della riserve di aria (fritta?) su cui contare, o perché qualche svolazzo da mosca fuori dalla bottiglia l’ho pure fatto.

    Un saluto,
    G.

  4. Razionalmente, e per onestà intellettuale, non posso che condividere quello che dici.
    Ovviamente, quello che ho scritto è il prodotto di ciò che io sono, delle mie influenze e del mio retroterra, della militanza vissuta e agita da quando ero ragazzina e delle riflessioni più disincantate di oggi. Non può essere un punto di vista neutro, e altrettanto chiaramente non avrei potuto scrivere quello che ho scritto da un’altra posizione e senza aver fatto più volte un tragitto dentro e fuori differenti mondi e situazioni, a volte agli antipodi, traendone comunque linfa ed insegnamenti.
    Non nego che quello che c’è in circolazione sia interessante e produttivo dal punto di vista di un’analisi politica e dei metodi – io stessa sono interessatissima a quanto circola negli ultimi anni, penso che ci siano stati finalmente snodi teorici importanti e liberatori, e soprattutto interdisciplinari che hanno dato al femminismo una boccata d’ossigeno e molte situazioni hanno dimostrato quanto sia fruttuoso quest’approccio (penso all’ultimo Fem Blog Camp, ad esempio, che ha elaborato una critica importante alle posizioni classiste e di retroguardia delle Snoq). Ma la full-immersion emotiva che questo lavoro (che spero di poter abbandonare presto) può essere totalizzante e mi ha dato una fortissima sensazione di impotenza rispetto alla ricaduta reale che il dibattito interno poi ha effettivamente sullo stato di cose esistente, e questo post è figlio di questa sensazione. Non si tratta di voler sminuire quello che esiste e dire che la verità ce l’hanno le donne con cui parlo io ed il resto è chiacchiericcio sterile; conosco i modi in cui i pensieri, le teorie, i discorsi, le pratiche si strutturano e circolano e si fanno poi agire politico concreto – formalizzazione necessaria per portare ad una prassi militante – ma poi entro nelle vite e nelle scelte di molte di queste donne e mi chiedo: a loro sta giovando quello che facciamo? ed in che modo? e come possiamo fare affinché non rimanga teoria e pratica di liberazione settaria ma arrivi a coinvolgerle tutte, ovunque esse siano, e a dar loro strumenti autonomi per leggere la realtà da un altro punto di vista? Io in realtà no sto facendo quasi nulla, sono partita dalla necessità stringente di guadagnarmi da vivere e per non sentire il senso di colpa ho fatto quello che mi è venuto più immediato, e cioé cercare di instillare loro l’autostima, l’attenzione ai propri bisogni emotivi, la necessità di rendersi indipendenti e assumersi delle scelte. Alcune recepiscono, altre continuano solo a chiedere risposte che non possono/vogliono darsi da sole, in maniera compulsiva, altre nemmeno ringraziano e spariscono. E mi sembra di dire e di fare poco, esattamente come mi sembra di fare poco quando invece mi occupo di quello che c’è dall’altra parte di questo mondo un po’ disperato e surreale.

    Ti ringrazio per il contributo che hai dato al post, l’ho trovato molto bello; un’integrazione che serviva al discorso che ho fatto io, poco mediato e molto viscerale.

  5. gabriele ha detto:

    Grazie per l’apprezzamento.
    Aggiungo solo che non posso che condividere l’inevitabile impulso emotivo che sorge dal confrontarci con situazioni come quelle a cui hai fatto cenno, o anche meno estreme. La mediazione razionale non si affaccia a negare la carica emotiva, semmai a indirizzarla.
    La rabbia, il senso di impotenza… sono carburante per non parcheggiarci nell’illusione che già viviamo nel migliore dei mondi possibili (la rabbia è l’antidoto contro la tentazione suadente che dice: sì, questo mondo è bruttino anzichenó, ma gli altri “non sono possibili”; quindi adeguiamoci a quel che c’è: “so it goes”).
    Contro la placida certezza che le meccaniche divine della storia metteranno tutto a posto, anzi stanno già lavorando alacremente. Anzi hanno già lavorato alacremente negli anni ’70, di che mai si lamentano le giovani e i giovani d’oggi (giovani già abbastanza invecchiati peraltro), avessero visto come si stava male prima!
    Ma per fortuna che ci scandalizziamo, che ci viene da piangere, e ci sembra che non ci sia niente da fare. Per fortuna che vediamo l’inadeguatezza del presente, di quel che abbiamo davanti e di quel che abbiamo in mano, visto che da questa sensazione viene la spinta a cercare, chi a cercare nuovi pensieri, chi a cercare nuove azioni, chi a cercare di unire gli uni e le altre.

    La ricaduta reale è che ci siamo, noi qui, tu sei lì per loro, e ognuno di noi è qui per qualcuno che magari ci sarà per qualcun altro ancora.
    Non cambiamo la vita di tutti, questo ancora no, cambiamo la vita a qualcuno, cambiamo un’ora nella vita di qualcuno, o non cambiamo niente ma introduciamo una possibilità dove non c’era, rispondiamo a un bisogno rilanciando con l’offerta di una voce alternativa.
    Con questo stiamo marciando verso il cambiamento sociale? Temo proprio di no, il cambiamento sociale non funziona per somma di individualità.
    Però intanto stiamo offrendo quel che abbiamo ricevuto in dote a esistenze altrui, e pur con tutta la coscienza che posso avere della prevalenza del sistemico sul’individuale, comunque non arriverò mai a svalutare quella misura irriducibile e incancellabile che è l’esistenza di ciascun soggetto. Non battezzerò mai come “nonnulla” aver dischiuso un possibile in più per una singola esistenza, tanto più quanto più è un’esistenza costretta e intrappolata.
    Ma con questo non dico niente che non sappiamo già tutti benissimo.

    Ecco, oltre a quello, io credo che su scala sociale, la nostra “azione” sia perpetuare l’esistenza di un “margine”. Un bordo, uno spazio che fa gioco, quell’area di confine dove secondo Lotman sorgono le scintille del cambiamento di una cultura. Io non produco il cambiamento, forse nemmeno tu, e magari neanche le femministe accademiche e chiaccherone: però tutti quanti stiamo mantenendo vivo uno spazio discorsivo (nel senso foucaultiano, quindi anche pratico) da cui attingere materiale, energie… compagnia.
    A volte si viaggia sulla cresta dell’onda, tutta una massa di forze spinge in una direzione, e si tratta di ottenere il meglio e il massimo dal cambiamento. Questo momento mi sa più di risacca.

    Io devo ammettere che quello che quasi mi sconcerta di più ora come ora è: domani, dopodomani ci sarà ancora il Margine? Come abbiamo assistito alla ritrazione delle garanzie sul lavoro, del sostegno dei servizi sociali, dei diritti alla salute, il fatto di assistere all’assalto frontale contro la circolazione dei saperi, non porterà conseguenze drammatiche sulla dimensione del “possibile”, del “pensabile”, ancor prima e ancor più tragicamente che sulla dimensione del “reale”? Ce la caveremo con la scappatoia di internet? O il Margine diventerà mera marginalità?
    Per questo ogni “poco” che propaga, o che anche solo ripete e reitera, o continua a esistere, per me non è poco.

    Mmm… temo di aver degenerato alla grande nello sfogo personale :-)

    Aggiungo solo il sospetto che la dicotomia tra teoria e prassi (come quelle così letterarie di ragione e sentimento, di natura e cultura, e via dicendo) sia a volte cesura e censura, ci sono parole che fanno cose come azioni che sono solo rappresentazioni, perché no, quindi – e lo applico a tutto quello che ho scritto fin qui – mi chiedo davvero se quello dell’efficacia a cui ambire disperamente non sia un feticcio in più nella mitologia tecnica della nostra epoca. Magari è più azzeccato un modello “ecologico”: abitando il nostro spazio già lo definiamo in virtù della nostra presenza qui, con le sue modalità e i suoi effetti. In questo senso già non estinguerci è un ottimo inizio.

    Scusa per l’intervento abbastanza scomposto: ho cominciato rispondendo, poi ho finito per andare a ruota libera. Conseguenze della pioggia.

    Un saluto,
    G.

    • Hai messo talemnte tanta carne al fuoco che dovrò per forza tornare a risponderti in un altro momento, quando potrò prendermi almeno un’oretta di riflessione :)

      • gabriele ha detto:

        Figurati, non c’è fretta! È stato un ruzzolone di coscienza (“flusso” mi sembrerebbe già troppo ordinata come metafora), rileggendolo mi accorgo che l’una o l’altra affermazione quà e là si contraddicono a vicenda… quel che si dice comunemente “tutto e il contrario di tutto”. Se comunque ti suscitasse qualche riflessione che vorrai condividere qui, la leggerò più che volentieri, quando arriverà il momento.

        • Giuro che sto provando da due giorni a scrivere qualcosa su quanto hai detto, ma come dicevo oggi ad un amico, probabilmente sto sulla soglia di una sindrome da burnout…

        • Credo che il concetto di margine, di liminalità, sia una delle cose più interessanti in assoluto, è lì che si possono creare intersezioni e produrre pratiche e discorsi che alla lunga, creano nuovi spazi culturali, nell’accezione più ampia del termine. Contiene in sè, ovviamente, il rischio che diventi marginalità, se gli attori sociali non possono/riescono a garantire un’adeguata circolazione e scambio delle idee (che poi questo era un po’ il presupposto da cui partiva la mia riflessione su quanto prodotto da certi discorsi femministi). Il “che fare?” è forse un retaggio di una visione – come fai notare giustamente tu- legata alla fabrilità, al perseguimento di un risultato oggettivo a tutti i costi ed in questo senso forse troppo novecentesca, mentre oggi sarebbe necessario avere una visione più interrelata e quindi più ecologica, meno “result oriented”. Condivido praticamente tutte le tue riflessioni, flusso di coscienza compreso, e mi dispiace molto di non avere in questo periodo la tranquillità e il tempo di entrare nel merito di tutto. Magari riuscirò a rendere meglio le mie idee attraverso altri post, ruzzoloni di coscienza miei, stavolta…

          • gabriele ha detto:

            Ti ringrazio per la risposta, con l’augurio di rigerminare presto in un post-burnout più sereno.
            A presto, G.

    • Ciao Serena. Apprezzo sicuramente e ci rivedo un sacco di persone (tra cui anche me – ma solo nella parte del caschetto – perché i miei capelli, ricrescendo, stanno diventando drammaticamente post-modernisti!)

  6. gabriella merucci ha detto:

    Articolo fantastico! Restituisce uno spaccato di realtà quanto mai verosimile, con tutta la gamma di sensazioni e impressioni che gli fanno da contorno. Comicità agrodolce, condita da una buona dose di buon senso, complimenti.

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